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Gli europei devono sostenere la transizione siriana

Gli europei devono sostenere la transizione siriana


Ormai da un mese la transizione siriana presenta un dilemma per gli occidentali: sarebbe meglio tenersi alla larga dai nuovi padroni del paese, alla luce del fatto che non corrispondono perfettamente alle attese? Oppure bisogna accompagnarli nella speranza di ottenere stabilità in una regione in cui la situazione è costantemente esplosiva?

La questione si è ripresentata a inizio gennaio con la visita a Damasco dei capi della diplomazia di Francia e Germania, Jean-Noël Barrot et Annelena Baerbock. Quando il leader della transizione Ahmed al Sharaa (fino a poco tempo fa noto come Abu Mohammed Al Jolani) ha stretto la mano del ministro francese rifiutandosi di fare lo stesso con la sua collega tedesca, alcuni commentatori hanno scritto che sarebbe stato opportuno alzare un polverone.

Baerbock, invece, ha sdrammatizzato: “Venendo qui sapevo che non ci sarebbero state normali strette di mano”, ha dichiarato alla stampa tedesca. Barrot, dal canto suo, ha commentato così ai microfoni di Rtl: “Volete sapere se avrei preferito che al Sharaa avesse stretto la mano della mia collega? La risposta è sì. Era questo l’oggetto della nostra visita? La risposta è no”. Fine della citazione. Si tratta di una reazione di buon senso, e il dibattito avrebbe dovuto concludersi lì.

Il mini dramma della mancata stretta di mano solleva il tema della natura del cambiamento di regime in Siria. Una lettura superficiale può sfociare in un parallelo con l’Afghanistan, dove oggi, dopo un surreale dibattito sui “taliban moderati”, il destino delle donne appare drammatico: le afgane sono infatti scomparse dalla vita sociale. Si chiama “apartheid di genere”.

La Siria potrebbe vivere un’evoluzione simile? I nuovi leader hanno inviato diversi segnali positivi. Ad alcune donne, per esempio, sono stati affidati incarichi importanti, tra cui quelli di responsabile della banca di Siria e di governatrice di una provincia. Inoltre la società civile siriana è molto attiva per difendere i loro diritti, il pluralismo religioso e il funzionamento della giustizia.

Ma ci sono anche segnali negativi. Nel paese è stata introdotta una riforma dei programmi scolastici in senso religioso, prima che alcuni elementi fossero eliminati a causa delle critiche. Il nuovo ministro della giustizia Shadi al Waisi è stato criticato per un video del 2015 in cui appare sul luogo dell’esecuzione sommaria di una donna. Era l’epoca in cui gli attuali capi della Siria erano jihadisti e affiliati ad al Qaeda, un passato che non agevola evidentemente la fiducia.

Gli occidentali erano perfettamente al corrente della situazione e sapevano che Ahmed al Sharaa, pur avendo rinunciato al jihadismo diversi anni fa, non è certo diventato un socialdemocratico scandinavo. Oggi il leader siriano rilascia dichiarazioni rassicuranti, ma i precedenti storici di derive islamiste autoritarie non mancano.

Al contempo, bisogna capire che la posta in gioco in Sira va oltre queste considerazioni. Per gli europei, in particolare, c’è un aspetto cruciale: quello della stabilità di un paese che ha vissuto il califfato del gruppo Stato Islamico, con le sue ripercussioni terroriste fin nel cuore di Parigi. Questa minaccia non è del tutto scomparsa e tornerebbe ad aggravarsi nel caso in cui la Siria sprofondasse nuovamente in un inferno.

L’Europa ha dunque un interesse vitale a favorire la riuscita della transizione, anche se non è perfetta. Questo processo passa inevitabilmente dalla cancellazione delle sanzioni che sono state imposte al governo di Assad e che non hanno più ragione di esistere, oltre che dall’offerta di competenze laddove necessario.

In breve, c’è bisogno di incoraggiamenti anziché di sottolineare tutto ciò che non va bene, almeno fino a quando la transizione procederà nella giusta direzione.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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