Almeno ufficialmente, l’Italia è nelle mani di sette personaggi pubblici che vediamo ogni giorno in tv e che rappresentano l’Italia politica. Con loro l’Italia entra nell’anno nuovo. Non aggiungerò aggettivi o connotati, tipo i Sette Nani o i Magnifici Sette, le Sette piaghe o le Sette meraviglie, perché sarebbe un giudizio sommario, genericamente spregiativo o laudativo. Vediamoli a uno a uno.
Per la decima volta consecutiva l’Italia è entrata nel nuovo anno col predicozzo istituzionale di fine anno di Sergio Mattarella. Per ragioni di incarico, età e durata a lui spetta il ruolo di Protagonista. Molti presidenti del passato abitavano la zona grigia del tiepido consenso o del tiepido dissenso ma senza picchi e polarizzazioni, eccetto due o tre. Mattarella invece è celebrato, oltre che dall’Italia ufficiale, da una fetta di italiani ma detestato dal resto d’Italia, che per prudenza o educazione definiamo l’altra metà. È mal sopportato non solo per la sua eccessiva durata, che configura quasi un regno, ma per il retrogusto catto-sinistrese che promanano i suoi sermoni e perfino il suo portamento. Supplente del Papa, a volte sembra il vero leader del Pd, il busto correttivo della Meloni, il Garante non dello Stato ma dell’Establishment. Il Quirinale è un gerovital formidabile, passano gli anni e Mattarella ringiovanisce; diverrà un ragazzo quando si eleggerà il nuovo presidente, perché lui pensa seriamente al terzo mandato, da qui all’eternità.
Dopo il capo dello Stato viene il capo del governo. Giorgia Meloni resta l’icona pop di maggior consenso, nonostante due anni di governo. Agli italiani piace soprattutto quando incontra i Potenti della Terra: lei è sempre la più piccola, con gli occhi più grandi, ma si fa capire e rispettare, e sorprende il suo plurilinguismo, considerando lo slang romanesco d’origine. Sull’azione del suo esecutivo prevale un tiepido silenzio generale che è poi un tacito assenso, attorniato da odiatori e ammiratori ai bordi del campo; ma quando la vedi nei vertici come una bambina tra i grandi nelle austere sale del Palazzo, ti prende una piccola fiamma d’orgoglio: ma com’è brava la bambina nostra, com’è cazzuta, come risponde, conquista coi sorrisi e le occhiate dal basso in alto… Biancanana e i sette grandi.
Quando al governo dicono la messa cantata, ai suoi fianchi ci sono i Gracchi, Antonio Tajani e Matteo Salvini. Tajani è sempre confidenziale, mai solenne; non è un leader ma il vicario e il portavoce di qualcuno, anzi il luogotenente, per usare un linguaggio, a lui monarchico, più confacente. È il ministro della Real Casa, come Falcone Lucifero coi Savoia, così lui coi Berlusca. Guida un partito che ha un leader defunto nell’effigie, o per i più devoti momentaneamente assente. Lui è il facente funzioni. Alla destra di Giorgia siede Salvini che non si riprese più da un cocktail nell’agosto del ’19 e da allora colleziona sconfitte e mazzate. Pure l’unica buona notizia su di lui, l’assoluzione recente per la vicenda degli sbarchi, gli ha fatto perdere l’occasione della sua vita di riprendere quota come Vittima dei Giudici e Martire della Patria offesa. Riescono comunque a renderlo simpatico perché lo accusano di tutti gli scioperi, i guasti, gli incidenti, i cattivi funzionamenti dei trasporti, e lo accusano di due cose contrarie: di occuparsi male dei trasporti e insieme di non occuparsene. Il suo punto di forza è pure il suo tallone d’Achille: il generale Vannacci.
Dall’altra parte della barricata c’è lei, sbucata dal nulla, come lei stessa si vanta. Ma di quel nulla porta i segni tangibili nei suoi discorsi. Elly Schlein appare come la banana di Cattelan, attaccata al vuoto ma venduta come un capolavoro politico; col tempo ha acquisito qualche dimestichezza, ma non lotta mai per i lavoratori, i proletari, i poveri contro i padroni sfruttatori ma è per i diritti, che poi in un certo mondo coincidono con i desideri. I più perfidi sostengono che l’hanno scelta così, diciamo non bella, perché in questo modo suggeriscono che però è intelligente. Stupida non è, ma resta ancora una banana appesa al nulla e alla Ztl del pianeta.
Al suo fianco, ma a volte come una spina, c’è il grillifugo avvocato professor Giuseppe Conte, presidente emerito e leader dei Cinquestelle filanti. Verrà studiato nei trattati politici di tutto il mondo perché è il caso senza precedenti, di una persona che si avvicinò in età matura alla politica e anziché iscriversi a un partito e cominciare la scalata, esordì in politica dal suo grado massimo, da presidente del Consiglio. E diventò così indispensabile che, unico nella storia d’Italia, capeggiò due governi opposti, uno con la Lega e l’altro col Pd. Fenomeno assoluto.
Poi ci sono i piccoli, i tanti liderini delle formazioni più piccole, verdi, rosse, bianche, fluide. Ma tra i lillipuziani c’è un gigante, anche lui presidente emerito, con un consenso alle spalle mai visto a sinistra e poi ridotto all’elemosina riscuotendo l’8 per mille dei voti. A Matteo Renzi dobbiamo anche Mattarella al Quirinale, Conte bis e Draghi al governo. Renzi ha deciso ormai di giocare il suo talento nel Maleficio, nel distruggere a turno chi sale sul podio o annunciare la sua prossima caduta.
I politici si grattano appena lo vedono, ma lui, il gatto nero fiorentino, resta brillante, capisce più di tutti di politica, anzi capisce tutto meno una cosa: come si fa a riprendere consenso e credibilità una volta perduti. Questa, signori, è la politica in Italia, sorella minore e minoritaria dell’antipolitica.