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Dopo la tregua a Gaza, la guerra si sposta in Cisgiordania

Dopo la tregua a Gaza, la guerra si sposta in Cisgiordania


Il 19 gennaio, a Gaza, è entrato in vigore un fragile cessate il fuoco tra il gruppo islamista Hamas e Israele. Ma la logica della guerra non si ferma, e il conflitto si è subito spostato in Cisgiordania.

Il 21 gennaio l’esercito israeliano e lo Shin Beth (l’agenzia d’intelligence per gli affare interni) hanno avviato un’operazione militare di grande portata, in cui è coinvolta anche l’aviazione, nella città palestinese di Jenin, nel nord della Cisgiordania. La sera del 21 gennaio si contavano già 9 morti palestinesi e 35 feriti nell’operazione battezzata “muro d’acciaio”, che secondo l’esercito dovrebbe avere una durata limitata.

Jenin è sotto il controllo dell’Autorità palestinese (Anp) in virtù degli accordi di Oslo del 1993, ma l’esercito è entrato impunemente nel centro abitato nella convinzione che esistesse una minaccia. Di recente si erano verificati scontri tra gruppi armati e la polizia palestinese, ma la settimana scorsa l’Anp aveva annunciato un accordo per mettere fine ai combattimenti. L’operazione israeliana arriva quattro giorni dopo la conclusione dell’accordo, ed è a tutti gli effetti un atto di sfiducia nei confronti dell’Autorità palestinese.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha inserito l’azione nel quadro della lotta contro i movimenti sostenuti dall’Iran, da Gaza al Libano fino alla Cisgiordania, che Netanyahu ha chiamato con il suo nome biblico: “Giudea e Samaria”.

In realtà, è altamente improbabile che i gruppi armati emersi di recente a Jenin abbiano un legame con l’Iran. Negli ultimi anni, infatti, in Cisgiordania è nata una nuova generazione di gruppi armati autonomi che non sono affiliati ad alcuna organizzazione, e che spesso contrastano sia Hamas che l’Autorità palestinese, ai loro occhi ormai senza credibilità.

La ragione di questa operazione è verosimilmente legata al cessate il fuoco e allo scambio di ostaggi che ha preso il via il 19 gennaio.

Tra i prigionieri che dovranno essere rilasciati figurano circa 200 palestinesi condannati per attentati, e le autorità israeliane temono che si uniscano ai gruppi clandestini attivi in Cisgiordania.

Il rischio di un’escalation è assolutamente reale, anche perché la situazione in Cisgiordania è già molto tesa. Gli attacchi dei coloni israeliani contro i villaggi palestinesi si susseguono senza sosta: la sera del 20 gennaio alcuni coloni armati e incappucciati hanno assaltato il villaggio palestinese di Al Funduq, incendiando case e automobili. L’esercito, come sempre, lascia fare.

Le nuove tensioni in Cisgiordania dimostrano che il cessate il fuoco a Gaza non avrà alcun effetto deterrente e non avvicinerà una soluzione politica. Questa prospettiva, oggi, non esiste.

Il piano di colonizzazione progressiva della Cisgiordania non è stato abbandonato, nonostante l’uscita dal governo israeliano di uno dei partiti di estrema destra che si oppongono a qualsiasi accordo per la fine della guerra a Gaza.

I falchi israeliani saranno sicuramente incoraggiati dal decreto con cui, il 20 gennaio, Donald Trump ha annullato le sanzioni imposte dall’amministrazione Biden contro i coloni estremisti. L’impunità di cui beneficiano i coloni porterà altra violenza, almeno fino a quando la comunità internazionale non reagirà. Il problema è che in questo momento sembra molto improbabile che ciò accada.

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